Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Leopardi lunare
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 79, p. 3
Data: 3 aprile 1955


pag. 3




   Sinceramente dichiaro, prima di cominciare, che ho sempre avuto per Giacomo Leopardi, dal primo giorno che l'ho conosciuto, un affetto caldo e profondo, fatto di ammirazione, di stupore, di entusiasmo, di tenerezza. Ma con l'andar del tempo questo affetto, benchè costante e vivo anche oggi, non basta a respingere molti moti e impulsi di ribellione del mio gusto e del mio pensiero. O che abbia perso, nella vecchiaia, la semplicità di spirito che occorre per amare nell'oggetto amato anche le ombre, le macchie, le stonature e magari le brutture, o che, al contrario, abbia acquistato con gli anni una sensibilità più delicata e un'intelligenza più scaltrita e più tagliente, fatto sta che spesso e volentieri certi passi del Leopardi, tanto in poesia che in prosa, mi danno noia, m'indispettiscono e, quasi quasi, se non avessi paura di imbruttire il vero, dirci che mi fanno arrabbiare.
   Uno dei punti dove più fortemente m'inalbero e recalcitro è l'inizio del Canto Notturno di un Pastore errante dell'Asia. Per chi non lo ricordasse trascrivo i primi versi:

Che fai tu, luna, in ciel?
Dimmi che fai, silenziosa luna?


e il peggio viene dopo:

Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?


   Questa apostrofe invocativa alla luna per chiederle giudizi sulla vita propria e sulla sua e perchè riveli i misteri dell'universo, mi mette fuori di me tanto mi sembra vana, sciocca, assurda, sia che si tratti di un vero pastore o del poeta Leopardi. A un custode di armenti, ingenuo e ignorante, si potrebbe anche perdonare quella ridicola e inutile interrogazione. Ma codesto pastore, nel seguito del discorso, dimostra di essere felice e potente poeta — come ad esempio nella raffigurazione del vecchierel bianco e infermo — e di possedere una sua saggezza, sia pure disperata, frutto di lunghe meditazioni. Un uomo siffatto, ricco di fantasia e di filosofia, non può supporre neanche per un momento, neanche per chiasso che la luna possa conoscere l'essenza e il segreto del mondo e, ancor peggio, che possa riuscire a dirlo. Egli sa bene che la luna non è che il cadavere di un astro, un povero piccolo satellite della terra; che probabilmente non ebbe mai ospiti viventi e che ora non è altro che una pallottola pietrosa e gelida, appena ravvivata qua e là da qualche verruca o gibbosità della crosta deserta. Se poi sotto il mantello asiatico c'è, come e certo, lo stesso Leopardi, lo scandalo di quelle retoriche domande è ancora più grave. Leopardi aveva scritto un libro intero sugli Errori popolari degli antichi e aveva studiato, nella sua vorace fame di sapere universale anche un po' di astronomia: doveva sapere, tra l'altro, che la luna, al pari della terra e di tutti gli altri corpi celesti, non può essere immortale. E non poteva neanche ammettere, lui, filosofo del secolo decimonono, l'animismo dei primitivi e dei selvaggi secondo i quali tutte le cose del mondo, per materiali che siano, racchiudono uno spirito simile a quello dell'uomo.
   Si dirà che Leopardi rivolge quelle intempestive e idiote domande alla luna per mera finzione poetica, senza prenderle troppo sul serio. Ma il Leopardi medesimo potrebbe insegnarci che anche le finzioni poetiche devono fondarsi su un minimo di credibilità e un poeta par suo, tanto dotto e tanto provvisto di risorse razionali e fantastiche, non aveva davvero bisogno di ricorrere a quelle goffe e strampalate domande alla silenziosa luna per esporre ancora una volta, in armonici versi apodittici, la sua nera e tetra visione della vita.
   E il peggio si è che nello stesso canto il Leopardi è recidivo perchè, sempre per bocca del suo immaginario pastore, non contento di essersi rivolto alla luna, muove domande consimili anche alla greggia:

Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi, perchè giacendo
a bell'agio, ozioso
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?


   Qui v'è almeno un certo pudore di verosimiglianza, in quelle parole « se tu parlar sapessi » ma rimane il vezzo buffo e stravagante di voler sapere le più difficili verità prima da un satellite morto e stramorto e dopo da miseri bruti brucanti. E pensare che in questo stesso canto il portentoso pastore, asiatico o marchigiano che sia, appare a noi come discepolo dei greci e precursore di Nietzsche in quei versi dove mirabilmente compendia in poche parole la teoria dell'Eterno Ritorno:

Poi di tanto adoprar, di tanti moti d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là, dove fu mossa.


   Appare davvero mostruoso e pazzo che una mente, così alta e sovrana, che possiede la conoscenza del mondo umano e di quello metafisico si abbassi fino al punto di implorare lumi e sentenze a un pianetucolo rattrappito o a delle stupidissime pecore.
   Per riconciliarmi con Leopardi dopo questa sua enfatica e comica mattana, vado a rileggere La sera del dì di festa dove egli ha veduto la luna nella sua verità naturale e poetica e gli son venuti sotto la penna alcuni versi tra i più perfetti che si trovino nel suo volume:

Dolce e chiara è la notte e senza vento
e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna.


   Questo sì che è Leopardi più vero e maggiore e quasi divino, quello che amo con tutta l'anima.


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